Apparizioni

Durante la notte il grande mulino del cielo aveva macinato. Sotto un cielo bianco e grigio gli alberi apparivano nella loro forma cristallizzata, grandi lampadari verdi piantati a terra, mentre i ginepri e ostinati ciuffi d’erba bruciata dal freddo facevano capolino dalla neve.

In quel mondo raggelato il tempo sembra rallentare. I fiocchi rimandano il contatto con la terra aggrappandosi a rami ed aghi e pure gli animali li immagini torpidi, lenti e in attesa. Tutti, in una letargia condivisa, risparmiamo energie per quando il sole farà ripartire le lancette al ritmo del disgelo. 

Sotto la volta dei rami tutto era ancora così, fermo. La neve era caduta come un velo nuziale portando con se odore di pulito e un silenzio bianco e solenne violato solo dal noioso scricchiolare delle suole di plastica sul sentiero gelato. 

Eravamo lì alla ricerca dei camosci appenninici. Con l’arrivo dell’inverno si inaugura la stagione degli amori, i maschi fiutano i feromoni e si riuniscono ai branchi di femmine. Qui se i vari pretendenti non trovano subito un accordo per stabilire le gerarchie e quindi il diritto di accoppiarsi si può anche arrivare a inseguimenti e scontri, più o meno violenti, in cui le corna uncinate vengono utilizzate come le spade in un duello. 

La neve, seppur timidamente, aveva già semplificato la palette dei colori e il binocolo si muoveva attento in cerca degli spavaldi abitanti degli strapiombi in un pallore immacolato interrotto solo dai grigi della roccia e dei ghiaioni, dai guizzi di ruggine del falasco e dai verdi tenaci dei pini e dei ginepri. Di fronte a noi andavano e venivano le nuvole: dense e compatte risalivano dalla vallata opposta e come una tovaglia sfilata frettolosamente dal tavolo scivolavano verso di noi assorbendo ritmicamente i crinali. Abbiamo temporeggiato per non perdere i momenti in cui le nubi si diradavano ma le pareti rocciose ci apparvero disabitate. 

Provammo allora a salire spostandoci su un altro versante spesso frequentato dai camosci ma la nebbia si infittì divorando noi e il paesaggio fino a darci la sensazione di camminare sul posto. Delusi e morsi dal freddo scendemmo di nuovo di quota fermandoci ancora lì dove le nuvole e la nebbia andavano e venivano. Il sole ormai era salito e i raggi trasformavano i tronchi in orologi solari. Tra i rami dei pini e dei larici qualche cincia mora celebrava allegra l’arrivo di luce e tepore mentre una fiamma arancione, un crociere stranamente curioso, ci fissava appollaiato sull’ultima appendice della chioma. Sotto il suo trono sempreverde una dispensa di pinoli lo aspettava sigillata al sicuro negli strobili.

La montagna avvolta nel mantello di ghiaccio appariva come un unico blocco indistruttibile e compatto. Ci sedemmo ai suoi piedi e pazientammo in silenzio contemplativo finché, immersi dentro sciarpe biancastre di nuvole e nebbia, arroccati sul versante più inaccessibile, comparvero i camosci. Le lancette avevano ricominciato a muoversi anche per loro, era tempo di scrollarsi la neve dalla preziosa pelliccia invernale e aprire per noi il sipario su equilibrismi e acrobazie. Questi sono animali con cuori robusti e zampe benedette; ogni vivente credo abbia qualcosa da insegnarci e il camoscio mi parla della capacità di aderire, di aggrapparsi anche a quello che sembra inafferrabile. L’equilibrio si può trovare nonostante.  

Mentre la luce del giorno diventa sempre più prepotente un maschio si avvicina con aria di sfida al branco delle femmine, criniera alzata e corna in bella mostra. È una questione di pochi secondi e un altro maschio si stacca risoluto dal branco e si lancia in un folle inseguimento tra le rupi ghiacciate e il ghiaione. Rapidissimi e senza fatica apparente salgono di quota per poi ributtarsi in picchiata sulla parete di roccia; le loro ombre faticano a stare al passo, la polvere di neve si solleva sotto i colpi degli zoccoli, il galoppo li conduce proprio verso di noi. La giostra di animali ci sfiora, l’aria intorno a noi si sposta; probabilmente nel furore della corsa non si erano accorti della nostra presenza e solo con un’ultima rocambolesca curva parabolica erano riusciti ad allontanarsi senza travolgerci. “Così vicini!” continuavamo a ripeterci tra occhi lucidi di luce troppo forte, battiti irregolari e sorrisi euforici, “così vicini!” 

Ormai il sole era alto, la luce ci aggrediva affaticando lo sguardo e le nuvole quasi del tutto scomparse. Pensavamo di aver spremuto al massimo la giornata e di aver pazientemente raccolto tutte le briciole di bellezza che erano cadute qua e là. Uno strano istinto ci teneva però ancora piantati lì sebbene i piedi come il sedere, il naso e le dita erano ormai pezzi di ghiaccio; continuavamo ad avere la sensazione che qualcos’altro fosse in attesa di accadere. 

Alzo il binocolo a sinistra e la vedo laggiù, lontana, fuori luogo e fuori orario. Appena sotto il valico, ad alta quota e in pieno giorno, una volpe camminava solitaria nella neve. Si è fermata sorniona sotto un pino, uno di quegli alberi eroici che resistono al vento e che radicano nell’impossibile, poi uno scatto, un balzo energico e il muso sparisce divorato dal ginepro. Forse un’arvicola cercava riparo tra le bacche e gli aghi bianchi e verdi. 

Quell’apparizione di volpe a tarda mattinata mi lasciò con una strana sensazione. Eravamo stati davvero fortunati a vederla lassù e se non avessimo avuto le foto come prova tangibile avrei potuto pensare ad un’allucinazione indotta dalla stanchezza. C’era qualcosa di magico in quell’apparizione. Che quella non fosse soltanto una volpe? Era forse venuto a trovarmi qualcuno vestito da animale selvatico? Tornammo a casa e quell’incontro continuò per giorni a punzecchiare piacevolmente la mia fantasia. 

Settimane dopo ci ritrovammo nello stesso posto. Questa volta non avevamo attrezzatura né abbigliamento adatto per un appostamento e ci sedemmo in silenzio consapevoli che la nostra capacità di sopportare il freddo non ci avrebbe consentito di rimanere molto a lungo. La neve era caduta abbondante e le schiene degli alberi si piegavano nello sforzo di reggere il peso del bianco. In alto, sempre in perenne sfida con le leggi della fisica, i camosci riposavano tra le rupi ghiacciate mentre in basso nella valle un’aquila volteggiava tra i pini infarinati. Stefano alza lo sguardo verso le cime e la sua attenzione viene catturata da un bolide in picchiata, una macchia nera scendeva in velocità dalla cresta, a più di 2000 metri di quota. Pensammo subito ad un camoscio perché nessun altro animale avrebbe avuto ragione di essere lassù con tutta quella neve ma il binocolo e l’obbiettivo della macchina fotografica ci contraddirono: il palco, un tridente ricoperto di velluto, non mentiva. Era un capriolo maschio, anche lui fuori luogo e fuori orario. La corsa fiancheggiò la rupe e il branco di camosci e tagliò il traguardo nella faggeta circa 600 metri più a valle passando proprio sotto a quello stesso pino. Il pino eroe sotto cui si era fermata la volpe aveva ospitato ora la seconda apparizione. 

Di nuovo e più a fondo il presentimento mi trafisse: quello era davvero solo un capriolo? 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *