Landa petrosa, neve e tempesta
Fanno piede sicuro e gamba lesta
Chi al riparo sempre resta
La sua vita perderà1
Due ragazzi viaggiano su un volo notturno partito dall’aeroporto Kastrup di Copenaghen. Le luci della città e lo scintillare dei canali sono già lontani, sostituiti dal blu immenso della notte e dell’oceano. Il mattino dopo si sveglieranno in Islanda. Ogni attento osservatore sarebbe stato capace di discriminare i passeggeri: gli habitué del vento solare scaricavano la cartucciera degli sbadigli e allentavano la morsa dei lacci delle scarpe mentre tutti gli altri si agitavano eccitati appiccicando volgarmente i nasi ai finestrini. Provate una volta in inverno ad arrivare ad una festa di locali in qualche cottage di campagna e gridare: “C’è l’aurora boreale!” – “Ah, davvero? Bello” è la risposta più positiva che otterrete, dopo di che tutti continueranno a guardare il loro film preferito degli anni novante in tv.2
Improvvisamente tra le snasate e le alitate appare un bagliore. Lui si alza, lascia che sia lei a occupare il posto vicino al finestrino e raggiunge frettoloso le cappelliere. Un brusio elettrizzato comincia ad occupare una metà longitudinale dell’aereo. Lui torna a sedersi, ora ha una macchina fotografica in mano e la appoggia proprio dove prima aveva sistemato il naso. Io e Stefano però siamo proprio nella metà sbagliata dell’aereo. Allungo giraffescamente il collo nel tentativo di inquadrare gli spicchi di notte ancora liberi, i lembi di cielo visibili tra teste, cappelli e capelli. La ragazza forse percepisce il peso del mio sguardo, si volta, mi vede, sorride e poi con un gesto delicato della mano mi offre la prima, seppur pallida, aurora boreale.
Siamo atterrati al buio. Dietro alle luci di Reykjavík, dietro al neon che illuminava un maialino rosa arrampicato sul tetto del supermercato Bónus, il bianco niveo delle cime raccoglieva il pallore della luna e affrontava la notte. Vapori densi risalivano dalle centrali geotermiche perdendosi nel cielo e più lontane, sull’ultimo orizzonte, solo alcune rarefatte stelle elettriche lasciavano intuire il respiro notturno di altri uomini fuori dalla capitale. Eppure quaggiù, nelle regioni abitate, il senso di solitudine non è mai tanto completo come quello che si prova sulle montagne. Si odono altre voci oltre alla propria, si sente un respiro vicino, la desolazione profonda dello spazio e del fondo dei crepacci non stringe nella sua morsa glaciale, fino alla radice dei capelli.1 Abbiamo guidato così per un’ora lungo la costa meridionale dell’isola.
Ci siamo svegliati in una mansarda calda, di legno chiaro. La luce dell’alba trafiggeva una finestra triangolare e si infilzava come una lancia tra le pieghe delle lenzuola, oltre il vetro il crollo delle temperature. Fuori pendeva un cielo azzurro, una distesa brinata d’oro antico e solidago rotta solo dallo scintillio ghiacciato dell’acqua nei canali; tra i trattori e i fienili sventolavano criniere di cavalli piccoli e solidi e sopra le loro schiene brillava un orizzonte liquido, la linea dell’oceano Atlantico. Tante cose ci risultano invisibili nella neve e nel gelo, la terra intera, praticamente; chi sospetterebbe che in estate qui dei fiumi tranquilli scorrono tra gli argini coperti di vegetazione, con i falaropi sulla superfice, la sterna artica che grida in cielo, le trote che si beano in profondità e le bacche che scuriscono al sole?5
È importante sapere che l’Islanda è un’isola di 103 mila chilometri quadrati con 351 mila abitanti. Circa quattro Sicilie messe insieme con meno abitanti di Firenze – per ogni chilometro quadrato ci sono più pulcinelle di mare e pecore che persone. Gli islandesi eccellono per consumo di antidepressivi e sono nella top ten dei più grandi bevitori di caffè. L’Islanda non ha un esercito ed è considerato il paese più pacifico del mondo dal Global peace index. Nonostante la scarsa densità di popolazione è generosissima culla di scrittori e musicisti, il premio Nobel Halldór Laxness e la pluripremiata Björk per citare due nomi e, udite udite, non ci sono zanzare. Il viaggio comincia così, con i numeri e le parole della guida Iperborea “The Passenger” Islanda mentre l’auto esce dalla strada di ghiaia nera per ributtarsi sulla Hringvegur.
La Hringvegur è un grande anello che percorre il periplo dell’isola. L’Islanda ha un cuore di montagne quasi inaccessibili, altopiani basaltici fumosi e selvaggi in cui stanno accoccolati tra i più grandi e antichi draghi di ghiaccio e fuoco del mondo. L’unica strada (quasi) sempre percorribile è proprio la Hringvegur mentre le strade interne che si arrampicano sulle disabitate Miðhálendið restano aperte solo per pochi mesi estivi. Abbiamo guidato tra l’oceano e le vette bianche, grandi e pezzate schiene di mucche da latte, attraversato roboanti fiumi glaciali e infinita brughiera. Siamo ai primi di marzo, manca ancora un mese alla vera fine dell’inverno ma qui nel sud dell’isola la neve e il ghiaccio non riuscivano a raggiungere le spiagge e i pascoli a bassa quota.
Non abbiamo percorso molta strada prima che mi accorgessi dell’esagerato dominio dell’acqua. Nello stesso modo in cui l’isola sputa fuoco e magma incandescente anche l’acqua irrompe fragorosa e incontrollata tra i crepacci. La quantità d’acqua è direttamente proporzionale alla portata delle sorgenti, delle nevi, degli enormi ghiacciai, delle calotte e delle lingue di ghiaccio. Basti pensare che se il ghiacciaio Vatnajökull fosse distribuito uniformemente su tutta la superfice del nostro paese l’isola sarebbe ricoperta di uno strato di ghiaccio alto una trentina di metri.4
Le cascate hanno invaso e conquistato l’isola; Seljalandsfoss, Gljufrabui, Irafoss, Skogafoss, Barnarfossar, Gulfoss sono solo alcuni, pochissimi, nomi di quelle che incontreremo lungo il percorso; appaiono una dopo l’altra rendendo difficile distinguerle. Imponenti per portata o per altezza spezzano con naturalezza la monotonia delle distese d’erba bruciata dal freddo. Al loro cospetto bisogna urlare per farsi sentire e delicatissimi arcobaleni appaiono festosi tra i vapori. Il fragore dell’acqua è tra le principali colonne sonore del paese insieme ai commenti degli uccelli di mare e all’ululato del vento.
Qui non ci sono alberi, solo negli ultimi anni è iniziata una campagna di rimboschimento. Tutte le antiche foreste di betulle sono diventate case, navi e fuoco per sopravvivere nei lunghi inverni e i terreni disboscati sono ora pascolo. È difficile per uno sguardo abituato alle grandi querce ai confini, ai gelsi che ombreggiano le aie assolate e ai boschi di latifoglie che disegnano la scacchiera del paesaggio non sentirsi perso e confuso in una vastità così apparentemente vuota. L’acqua e le cascate sono alcuni degli elementi a cui il nostro sguardo si aggrappa per provare a determinare distanze e proporzioni. Si aggrappa alle linee geometriche delle case, alle fattorie e alle chiese isolate, cerca rassicurazione nelle schiene lanose delle pecore islandesi, nelle criniere dei cavalli e nel volo di un’oca selvatica. Anche i mastodontici tralicci che portano energia diventano rassicuranti riferimenti verticali; figure quasi umane nel deserto orizzontale della brughiera. Piccoli, in Islanda ci si sente spesso piccoli ed è stato difficile per me armonizzare annichilimento e acuta sensazione di libertà in una terra che sa essere tanto grandiosa quanto ostile e vuota. Chi percorre queste lande in una bella giornata di sole estiva può avere la sensazione di essere giunto nel paese dell’eternità.5 Qui pure le pecore amano e hanno fede nell’infinito.3
Appaiono le prime immense code crestate dei draghi di ghiaccio, la strada attraversa torrenti glaciali che si trascinano dietro grandi blocchi di gelo nero, supera un campo di antiche bolle di lava, muschio e cinabro. Arriviamo sulla costa orientale dell’isola al tramonto, l’inverno scalcia, le temperature non superano lo zero e il vento freddo ghiaccia denti e gengive. Abbiamo guidato fino alla laguna dello Jökulsárlón. Qui il Vatnajökull si muove per effetto del suo stesso peso; lentamente il ghiaccio scivola a valle, si trascina stanco fino alle spiagge di fusaggine e all’oceano scuro, formando la laguna. Sulla battigia appare qualche enorme e macabra lisca di pesce mentre nasi baffuti e grandi occhi neri affiorano sul pelo dell’acqua salmastra.
Il mattino dopo le grandi perle di ossidiana affioreranno ancora tra gli iceberg, le stesse foche ci aspetteranno sdraiate al sole, allungate su blocchi di ghiaccio iridescente che galleggiano nel più grande lago glaciale d’Islanda. Chissà, mi chiesi, se le foche sanno di riposare su pagine di manoscritti congelati che raccontano storie e vite antichissime, chissà se le foche sanno che mentre la laguna si allarga il ghiacciaio continua a sciogliersi, inesorabilmente, a ritmi sempre più spaventosi, chissà se anche le foche sanno che non stiamo facendo abbastanza. In futuro un ghiacciaio sarà un fenomeno esotico, raro come una tigre del Bengala. Il fatto di aver vissuto al tempo dei giganti bianchi sarà avvolto in una luce fiabesca, come aver accarezzato un drago o tenuto in mano le uova dell’alca impenne. Per qualche altro migliaio di anni, sicuramente i ghiacciai si conserveranno in Artide, in Groenlandia e in Antartide, ma probabilmente non sulle Alpi, né sulle Ande, e saranno spariti quasi del tutto sulla catena dell’Himalaya e in Islanda.4 Mi tornano in mente i versi della Vǫluspá che cantano la mitologica apocalisse scandinava
Il sole si oscura
la terra sprofonda nel mare,
cadono dal cielo
le stelle lucenti.
Erompe il vapore
e chi nutre la vita;
gioca alta la vampa
con il cielo stesso.6
Il mio binocolo impazziva tra le pelli maculate delle foche e le eleganti pieghe del ghiaccio, tra risvolti di neve, bianca come ali d’angelo, tra crepe e fratture che feriscono una delle code di drago scivolata nell’acqua. Poi vengo distratta dai colori delicati di alcuni edredoni in parata sull’acqua oleosa. È difficile descrivere il peso della piuma di edredone in una lingua in cui il paradigma della leggerezza è la piuma. Al contrario di una normale piuma in cui le barbe sono disposte ordinatamente intorno ad un calamo solido, vista al microscopio, la piuma di edredone offre un ritratto del caos: centinaia di barbe soffici si diramano da un unico punto, attorcigliandosi una con l’altra e intrappolando sacche d’aria.2
L’edredone è un’anatra marina le cui piume sono oggetto di interesse dei ricchi del mondo. Tutti smaniano per piumini e giacche di edredone. La caratteristica eccezionale della piuma di quest’animale è un’estrema leggerezza per un altissimo isolamento termico, lo stesso edredone ne è ben consapevole e si spenna il petto pur di tenere al caldo la sua cova. In Islanda l’edredone gode di grande rispetto e i raccoglitori custodiscono e difendono le anatre limitandosi a prendere le piume che rimangono nei nidi alla fine del periodo di cova, lontani dalle logiche di un mercato che incalza per pratiche più produttive ma meno etiche e sostenibili. Pare che gli edredoni apprezzino e tornino più numerosi proprio lì dove sono stati accolti, difesi e rispettati.
Inseguendo il percorso del sole ci imbattiamo in un branco di renne. Le prime sagome sono apparse come carovana lungo la linea dell’orizzonte poi alcune più vicine placide e algide, pelose fin sopra lo zoccolo. Brucavano nel silenzio assoluto della brughiera sotto i solitari giganti di ferro dell’alta tensione. Il silenzio della brughiera era perfetto, in quel silenzio in quella luce, in quel paesaggio anche l’uomo era perfetto nella sua ricerca dell’essenza della vita.”3
Al tramonto, con tantissimi altri, ci siamo ritrovati a Reynisfjara, una lingua si sabbia nera e lucente si allungava nella luce ambrata e radente. Ma il sole in Islanda ha mai fretta? Mi appariva un sole impigrito, trainato da cavalli letargici; le albe e i tramonti arrivavano e sparivano rilassati, come gatti che si stiracchiano, lenti e allungati come le ombre che producono. Il sole sfiora i fari, forti e soli sulle falesie, bacia le sule e i gabbiani incastonate su minareti di roccia nera; illumina le simmetrie di case e chiese dalle bizzarre tinte pastello, accarezza insistente la neve e il ghiaccio fino a farli arrossire, stende foglia d’oro sulla brughiera. Del resto non c’è niente da vedere in Islanda se non le montagne, le cascate, i poggi erbosi e questa luce capace di entrarti dentro e trasformarti in un poeta.7
Abbiamo guardato apparire le stelle immersi in una hot tub, ospiti di un bed&breakfast che oltre ad offrire ai suoi ospiti una fetta di torta alla marmellata di rabarbaro detta “Della felicità domestica” forniva anche mappe illustrate per localizzare case e chiese del popolo nascosto. Dopo mezz’ora di vapore e acqua sopra i 40° credo davvero di aver visto qualcosa di elfico scintillare verso la montagna. Insieme a noi, in camera, dentro una scatola da sigari appoggiata sul comodino, dormivano anche due topolini di peluche. Sembra quasi che intorno all’anno 1000, quando il cristianesimo divenne la religione di stato, per gli islandesi si sia solo aggiunta una divinità in più. La loro credenza negli elementali, negli elfi e in altre creature invisibili del popolo nascosto non è mai andata completamente perduta. Su un’isola vulcanica, continuamente deformata dai ghiacciai e da ininterrotti flussi di lava e tempeste, bisogna tenersi buoni un po’ tutti gli spiriti. Secondo i sondaggi, solo il 14 per cento degli islandesi si dice sicuro che gli elfi non esistono.2
Guidavamo verso il Circolo d’oro e come ci aveva preannunciato in tono di ammonimento un simpatico islandese al desk del noleggio auto, il tempo sarebbe cambiato: stavano tornando il freddo e la neve. Ci siamo fermati a mangiare una zuppa di funghi e una d’agnello lungo la strada – per variare la dieta insalubre ma economica fatta di hot dog con cipolla croccante – in uno dei rari benzinai con bistrot che si trovano nelle zone interne. Qui il caffè è quasi sempre compreso nel prezzo. Questa regione sarebbe di sicuro disabitata se non fosse per il caffè5. Immagino i lunghi inverni islandesi in cui l’aroma intenso del caffè invade e custodisce le case avvolte dal gelo e schiaffeggiate dal vento artico. In una fragranza del genere si dimenticano le sventure del mondo e l’anima si rischiara di fiducia nei tempi a venire.3
Nessun vulcano era in eruzione a marzo, ma il fuoco perenne che arde sotto la superfice si lasciava tranquillamente intuire dal bollire perenne delle acque, dalle liquide colonne blu che ogni dieci minuti si arrampicano nel cielo vuoto per decine di metri. Sotto i tuoi piedi percepisci che niente è fermo. Scorrono fiumi di magma, fischiano pentole a pressione, rimbombano sotterranei fiumi impetuosi, i troll scavano le loro grotte, a Þingvellir due enormi placche continentali si guardano. Anche se tutto ghiaccia, se si rapprendono le pietre e l’acqua, se l’aria gela e cade giù in fiocchi bianchi e si posa come un velo nuziale, come un sudario sulla terra, anche se il fiato gela sulle labbra e la speranza nel cuore, e nella morte il sangue nelle vene – sempre, nel centro della terra, vive il fuoco1
Proprio a Þingvellir nel 930 d.C. viene fondato il primo parlamento al mondo di cui si abbiano notizie. Un’assemblea riunita a cavallo tra placca americana ed euroasiatica decretava già allora il desiderio di indipendenza e libertà degli islandesi. Ancora oggi l’Islanda ha una storia politica straordinariamente moderna, bizzarra e all’avanguardia. Gli islandesi sono sempre stati una nazione libera e indipendente, dall’antichità. L’Islanda e stata colonizzata da capi liberi che preferivano vivere e morire nell’isolamento piuttosto che servire un re straniero.3
Per sentirmi libera e forte, per sentirmi islandese, mi sono immersa in una pozza termale isolata e selvaggia, nascosta tra le onde verdi della brughiera, tra poggi erbosi che riposano come cani addormentati. Protetti solo da un tetto di torba e sferzati dal vento freddo abbiamo rinunciato ai vestiti tenendo solo il cappello come ultimo avamposto contro l’aria artica. Credo però di non avere la tempra del vichingo islandese perché tornata in auto, insieme ad una seria disprassia da congelamento, avevo anche un chiaro, fastidioso e incontrovertibile principio di cistite.
La luce di marzo e della primavera è speciale; è la luce che anticipa la fine dell’inverno e del buio. Le giornate si allungano e la luce penetra affilata nell’oscurità; nell’arco della giornata avevamo quasi 12 ore di luce, mai dura e mai violenta, a cui si aggiungeva la luce verdastra regalata dall’aurora. Accadde una sera, di ritorno verso una caldissima e accogliente casa islandese. Prima ancora dell’arrivo del buio, durante un crepuscolo infinito, un lenzuolo bianco, di organza leggerissima, cominciò a sventolarci sopra la testa. Nonostante la luce del giorno non fosse ancora svanita l’aurora cominciava già a guadagnarsi pezzi di cielo. Il meteo aurorale dava un alto indice di attività geomagnetica proprio sopra le nostre teste, mantenuto alto per tutta la notte; abbiamo aspettato il buio affrontando il freddo finché il bagliore alieno non ha incorniciato le eruzioni di Geysir: ll freddo mordeva così forte da congelare istantaneamente le minuscole gocce d’acqua, cristallizzandoci nelle giacche e incollandomi alla panchina come lingua sul ghiacciolo.
Quando abbiamo raggiunto la penisola dello Snæfellsnes il meteo era ancora in peggioramento. Abbiamo guidato tra i bagliori di un cielo mutevole, ascoltando la radio che mandava pop islandese sconosciuto: Lupina, Elìn Hall, FLOTT, un’aquila di mare è apparsa tra le cime, scura sullo sfondo di neve, montagne così bianche da confondersi coi sogni. Intanto cominciavo lentamente a capire perché in Islanda sugli sportelli delle macchine a noleggio ti ricordano di tenere forte la maniglia e di controllare la direzione del vento prima di uscire. Il cielo si riempiva le guance e il suo soffio strappava le parole di bocca scaraventandole tra le onde e sulle montagne. Lo Snæfellsjökull troneggia nel centro della penisola, ultimo elevato avamposto prima dei remoti e dimenticati fiordi dell’ovest. Guardo i piccoli porti e le coste che affrontano i marosi, i faraglioni basaltici sbiancati di guano e ricamati di erbe salmastre dove colonie di uccelli marini si riparano dagli elementi atmosferici infilandosi tra crepe di roccia nera. Dopo la pastorizia è la pesca che ha garantito e garantisce ancora la vita e la sopravvivenza degli islandesi. Battute di pesca al merluzzo nel freddo blu di un oceano che si rivolta irruento e inaspettato anche nelle notti più limpide e tappezzate di stelle. Un mare così freddo che uccide anche se sai nuotare. Quasi tutti gli agglomerati urbani in Islanda sono stati costruiti con le lische di merluzzo, i pilastri che reggono le volte dei sogni.7
Lo Snæfellsnes si presentava già da lontano più nevoso del sud. Qui la neve è padrona delle pendici e allunga le dita fino alle case isolate e arroccate sotto le montagne. Durante la notte, dopo un’accoglienza genuina, di trecce rosse e occhi pieni di pioggia e cavalli bagnati7, maglioni di lana e aroma di stufato di pecora, un fortissimo vento artico ha aggredito la penisola e tutto il nord. L’aria resuscita la neve delle cime, turbini impazziti di fiocchi ghiacciati inglobano la strada. Le carezze trascinano i fiocchi di neve, come in una morbida danza che a poco a poco si fa più dura, più rapida, più folle, e poi non hanno più la minima idea di qual è la neve che cade dal cielo e quella che si alza da terra spazzata dalla tormenta.7 Faccio fatica a prendere sonno per il continuo picchiare del vento contro porte e finestre, immagino un esercito di mostri scatenati nel buio gelido della notte. Sempre la stessa furia, un muggire affannoso come di giganti in lotta, scontro di forze invisibili, eterno e sconfinato, una notte urlante indemoniata.”1
Oggi gli islandesi hanno il geotermico, case estremamente calde e accoglienti hanno sostituito le capanne di torba, ci sono strade e strade migliori e accesso a internet per sconfiggere l’isolamento. Ma è davvero difficile immaginare la vita di pastori e pescatori del passato in una terra che sa essere così fredda, buia, solitaria e inospitale. Nei lunghi mesi invernali poteva non succedere assolutamente niente, solo gelo, neve e un cielo che cambia colore in un mondo che sembrava averti dimenticato. A volte è semplicemente impossibile vivere in questo paese, il freddo chiude qualcosa dentro di noi, le durezze ci rendono più rudi e ogni gioia di vivere sembra castrata – come se dovessimo prendere la rincorsa per goderci la vita.7
Al mattino ci sveglia un cielo completamente bianco, aria pulita e una luce morbida e buona. In islandese ci sono tante parole per descrivere la neve e il freddo come tante parole che parlano di luce, una di queste è ratljost che letteralmente significa “luce sufficiente per viaggiare”. La luce era effettivamente sufficiente per viaggiare ma non arrivava a scaldare le dita congelate, la terra rimasta in ombra, a sciogliere l’incantesimo bianco che intrappolava le cascate. I bambini islandesi però sembravano non curarsene: in bicicletta controvento nell’aria salata, fredda da crinare il fiato, biondissimi e sorridenti. Giocano indifferenti, forse felici, a -7°, nel cortile della minuscola scuola di paese, a centinaia di chilometri di distanza dal primo vero centro commerciale, dal primo cinema, dalla prima città. Il mare è profondo, cambia colore e sembra che respiri. È un bene per noi avere il mare, perché a volte i giorni passano senza che accada un bel niente e allora guardiamo il fiordo che diventa blu, e poi verde, e poi scuro come la fine del mondo. Ma se fosse vero che la quiete è il sogno della velocità, magari dovremmo istituire una casa di cura per cittadini stressati, e non stiamo pensando solo a Reykjavík, ma a Londra, Copenaghen, New York, Berlino: venite dove non succede mai niente, dove niente si muove se non il mare, le nubi e quattro gatti.8 Che sia vero che se mandi giù che siamo quattro gatti a volte nei posti piccoli la vita diventa più grande?8
Dalla cima del colle che sovrasta il porto e il colorato borgo marinaro di Stykkishólmur intravedo le propaggini deI Vestfirðir, l’ultimo Nord islandese, la fine del mondo7, bianchissimo sotto la neve delle notti passate. Avrei voluto imbarcarmi subito, con i camion e i pendolari, attraversare il fiordo e lasciare che il giorno dopo la hostess di volo chiamasse invano i nostri nomi all’imbarco del volo per Roma; avrei desiderato poter continuare a cercare tra neve e brughiera un muso affilato di volpe artica, le pance bianche e lucide delle orche tra le onde dell’oceano, aspettare che il sole che a poco a poco avesse la meglio sul ghiaccio e godermi l’odore dell’erba nuova dopo il lungo inverno.
“Il ragazzo guarda di nuovo la lettera, le parole sono l’unica cosa che il tempo sembra non avere il potere di calpestare. Attraversa la vita e diventa morte, attraversa le case e diventa polvere, anche i monti, quei maestosi ammassi rocciosi, finiscono per cedere. Ma alcune parole sembrano capaci di opporsi al su potere distruttivo, è così strano, certo si corrodono, diventano un po’ più opache, eppure resistono e conservano in loro le vite da lungo trascorse, conservano il battito di cuori scomparsi, l’eco di una voce infantile, antichi baci.”7
Per me sarebbe stato impossibile scrivere senza prima provare a farmi travolgere dalla letteratura islandese. Gran parte della scelta lessicale e delle similitudini non è casuale. Tutto il testo è inoltre accompagnato da estratti dei libri che sono stati compagni di viaggio oltre che muse ispiratrici. Qui vi lascio tutta la bibliografia, seppur minima, di riferimento per chi volesse partire domani – fisicamente o no.
Jon Kalman Stefànsson – Luce d’estate ed è subito notte – IPERBOREA8
Jon Kalman Stefànsson – Paradiso e inferno – IPERBOREA7
Gunnar Gunnarsson– Il pastore d’Islanda – IPERBOREA1
Jon Kalman Stefànsson – La tristezza degli angeli – IPERBOREA5
Halldór Laxness – Gente Indipendente – IPERBOREA3
Andri Snær Magnason – Il tempo e l’acqua – IPERBOREA4